La notte mi ha svegliato senza sassofoni che graffino delicatamente alle soglie.
Brutale e indifferente com’un vulcano con reflusso gastrico, m’ha vomitato giù da un letto disfattista altrimenti arreso alle mie lamentele. Ordunque annaspo per gli angoli di casa, fedeli in restrizione, incroci di muri dei pianti. Ma non piango perché troppo poco tempo intercorre tra l’insonnia e il termine del filo logico: anche la memoria dell’errore s’asfissia. Quante cose invece si buttano giù senza alcuna conseguenzialità quando la mente è cullata dalla continuità! Prendi un pensiero, una parola, e puoi ridisporli secondo il colore o l’odore, o il talento del momento. Quando invece il sonno t’abbandona in una piazza piena di gente “poco raccomandabile” e tu hai appena imparato sia a obbedire che a stare in piedi è diverso: devi poter descrivere il filo asmatico degli eventi e cogliere il tuo errore dietro ogni battito di ciglia. Dove altro potresti volere andare? Non perdere tempo: il compito è spiegare perché niente segua il tuo primo istinto d’esso. C’è un solo sentiero, e pure stretto, che porta alla precisa, terminale sofferenza d’una percezione in bilico su corde sospese. E non sono fissate a pali, o a rocce ben infisse nel terreno: no. Sono invece in mano di controllori, a selettori del personale. C’è forse qualcosa di libero dentro di te che, sia pur attraverso artifici retorici, stia cercando di esprimersi lungo il percorso di queste parole scritte? Non credo. L’unico ordine che vi possa associare è la precisa trascrizione d’una sequenza matematica, la cui soluzione sia perfetta aderenza e l’errore perdizione eterna.
Abitualmente sogno, durante queste ore: e un suppurato d’immagini surrogate pressa ai confini della mente, lasciando filtrare solo un distillato affannoso d’acqua salata attraverso le pareti cerebrali, come un fuoco nel naso, o una pulsazione degli occhi colpiti dal virus dello shampoo.
In un sogno ricorrente d’infanzia cercavo di farmi largo lungo i cunicoli d’una tana di topi-umani, ma senza che potessi pensare che per essi fosse stato concepito. Un semplice interstizio, il cui miserrimo spazio sufficiente era spartito tra il mio corpo onirico e cataste di vecchi fogli impossibili da leggere nella penombra polverosa. E dove avesse termine quel tragitto non seppi mai: una sveglia o una mamma o una paura o un sangue alla gola mi lasciavano lì per sempre, in modo che potessi ogni volta riprendere dallo stesso punto, vincolato alle ragnatele pazienti di quell’incubo. Per ritrovarmi poi fra i rovi dei banchi di scuola, dove niente ancora aveva la mia forma. Fra quelle parole e quei corpi annaspavo cercando di trovare spazio nel bozzolo invisibile di un’ostilità asfissiante alla vita. Che fossi nato non era in alcun modo punto di partenza: al contrario occorreva guadagnarselo, partendo dal presupposto di un’indegnità totale, come espiando la colpa lussuriosa di genitori eslegi. “Salve” pensavo. “Sono il frutto d’un furto, d’un colpevole rimestare nella sozzura, d’una stecca nell’assolo della vita.” Più o meno. Ma la parola non l’ebbi davvero mai.
Unicamente a memoria era consentito esprimersi, e con parole d’altri. Non che non ci provassi, a fingere d’esser d’accordo con quelle cose che non riuscivo a farmi interessare. Ma quel maledetto, insubordinato, oscuro grido, i graffi del cunicolo, la muffa in gola, le trivellazioni intestine: oltre a girare attorno alla cattedra come un pianeta soggiogato io dovevo gestire moti ricorrenti e imprecisabili. A cui stamattina (così mi dice il bagliore che increspa il buio della prospettiva sulla finestra) mi ricongiungo, anche stavolta, senza scampo. Persino la mia mancanza di sonno ha ancora bidelli che scortano in presidenza, segretari che ratificano impreparazioni, e lo sguardo rimproverante di compagni che non sono stati beccati al posto mio.
È un corteo di riprovazione che mi rigetta per strada, dove sarebbe forse possibile sperare in un grammo di libertà sfuggita alla vigilanza dei questurini dell’istruzione. E invece no, sono già vecchio. Ho quarant’anni e una minaccia pendente: o poliziotto o paria. Tertium non datur. O forse sì: insonne terminale.