Eppure avevi detto a tua madre che la festa non la volevi

A ogni angolo della città è sparso il vischio del senso.
Cammini nottetempo di fretta, vorresti trovare un angolo su cui far riposare la schiena ma, ancor più, brameresti uno scorcio avulso, un puntello che ti consenta di ergerti su quella visuale senza farne parte. Vorresti consumarla eppure non soggiacere al destino da consumatore che ogni scorcio è lì per reclamare. Hai gettato giù nel tombino della fogna le tessere magnetiche dei supermercati, strappato l’abbonamento a questo o quel giorno, azzerato i tuoi gusti e riequilibrato le tue inclinazioni fino ad annullarne l’ombra. Vuoi tirare dritto, e tentare la fortuna di un angolo trascurato, un bidone dell’immondizia senza spese di affitto. Non hai più un’automobile e, ancora, tirare due boccate di sigaretta appoggiato a un lampione fulminato non prevede un prezzo per la sosta. Ma non è lecito ingannarsi né dismettere l’erta: traiettorie ancora non divulgate hanno in serbo la gestione di porzioni di spazio difficilmente racchiudibili in concetti semplici. Ma ancora, si può cercare.
Sei un fuggiasco, certo, e non è neanche semplice spiegare al tuo vicino di sgabello al bar da cosa tu stia fuggendo. Dovresti avere il tatto di perorare una patologia, un trauma inestirpato, affinché ciò che diresti non suoni offensivo. Lui sta solo aspettando, sta contando i giorni per la ricompensa. Poche cose temi di più della tua ricompensa, come a scuola temevi la compagna che ti si strusciava sulle gambe per garantirsi un’assicurazione sui compiti in classe; o la tua collega decana che lodava la tua professionalità per tenerti in pugno e mollarti i verbali d’ogni cosa.
Ma anche la notte va cambiando. Negli anni la sua capienza s’è ristretta, gli atomi delle traiettorie già segnate s’intrecciano come fasci luminosi che ti lambiscono la pelle. I fanali delle automobili, intasati in pochi chilometri di movida; i display dei cellulari che come lucciole malariche screziano la vista delle lunghe prospettive alberate; le insegne di qualunque cosa; i bancomat voraci; i cartelli delle strade sostentati da ben celati accumulatori solari; e quella musica costante diffusa da ogni apparecchio televisivo che pulsa attraverso i parapetti dei balconi, le autoradio, i locali con musica dal vivo, i karaoke.
Tu sei uno dei bersagli della notte. Siete rimasti in pochi e in ancor meno avete imparato l’arte della dissimulazione, o preparato una battuta per ogni evenienza d’interlocuzione.
Giri per le strade e sbatti sulle cose, ma non sei ubriaco. Sono le cose che, fingendo di star ferme, ti pedinano e strattonano, poi ti salgono in fila indiana attraverso i pantaloni su per le gambe, come formicai che tu abbia accidentalmente calpestato. Sono piccole scosse elettriche, a volte quasi impercettibili, estenuanti piccole depilazioni sino al bulbo che non hai richiesto ma di cui è un delitto non approfittare. Sono bisogni che hai maturato senza neppure averne desiderio; è una vita che ogni attimo di silenzio tramuta in assenso al tuo questionario. Non leggi i giornali, non hai televisione e, presto – conti – non avrai neppure più uomini-sandwich travestiti da amici. Cerchi silenzio, cerchi oggetti capaci di occupare la tua mente che non siano ancorati a una presa di corrente, a un’interpretazione coattiva, a una dilazione del pagamento. Gli amici sono andati in vacanza, ebbri della parola vacanza, sprofondati nei mille rivoli della parola vacanza, ad affollare luoghi in cui tutti gridano vacanza connessi allo smartphone del mondo, che detta loro il linguaggio binario dell’overburn neuronale.
Sei solo in città, immerso in una fiumana di corpi che in pochi minuti si materializza attorno alle tue scarpe, rendendo l’afa estiva gravida di messaggi che si riproducono come germi nel padiglione auricolare. Hai messo dei tappi nelle orecchie, sperando di ostacolare quella goccia di senso costante che alacremente scava i tessuti, ed ecco che i corpi scoperti dell’estate, come strilloni ognuno del proprio senso limitato, si parano davanti con ferite nere tatuate su pelle bianca; messaggi che vogliono tu legga, vite che vogliono tu apprezzi, aneliti universali che marchiano la carne di affannosa volgarità, come indicazione di scadenza, come decorazione seriale in cui l’elemento ricorrente è l’immagine bidimensionale dell’insensatezza customizzata.
E tu vorresti la foresta, vorresti la cima di una montagna, vorresti scrostarti di dosso il virus che ti permette di decifrare.
Vuoi uscire di casa e sapere di essere fuori di casa. Invece non trovi la porta d’uscita. E da dieci giorni cammini verso i limiti estremi della tua stanza da letto, ma il mondo è la galleria senza fondo a cui hai appeso le fotografie digitali di ogni momento. Niente ti sorprende, tutto è già stato declinato al peggio, tutti stanno applaudendo alla tua festa di compleanno le slide del primo dentino. Eppure avevi detto a tua madre che la festa non la volevi.

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